Sono passati una cinquantina d’anni dai primi campioni di roccia lunare raccolti dagli astronauti delle missioni Apollo, che venivano sottoposti a rigidi periodi di quarantena una volta rientrati a Terra. Per anni le preoccupazioni della protezione planetaria si sono concentrate sulla prevenzione dell’inquinamento del Sistema Solare da parte dell’uomo: i veicoli spaziali, come le sonde che hanno viaggiato attorno ai pianeti del Sistema Solare, o che si sono posate sul pianeta Marte e che hanno regalato, non solo le prime immagini di questi mondi ma anche i primi grandi risultati scientifici “in loco”, erano stati sterilizzati per impedire che organismi terrestri potessero contaminare l’ambiente extraterrestre.
Abbiamo intervistato l’Astrofisica, Sabrina Masiero, dal 2013 fa parte del gruppo GAPS-Global Architecture of Planetary Systems sulla ricerca di pianeti extrasolari dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Ha trascorso un periodo al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) nelle Isole Canarie, il telescopio italiano di 3,58 metri al cui fuoco sono collocati HARPS-N e GIANO, due fra i più grandi cacciatori di pianeti extrasolari. Dal settembre 2016 lavora presso la Fondazione GAL Hassin-Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche di Isnello (PA), di cui è Responsabile dal settembre 2018. Con Sabrina Masiero abbiamo affrontato il problema della contaminazione di altri pianeti da parte di microrganismi portati da sonde e veicoli spaziali terrestri.
Cinquant’anni fa come avveniva la quarantena degli astronauti? “Tutti i campioni non terrestri venivano considerati come potenziali rischi biologici. La NASA metteva in quarantena gli astronauti dell’Apollo al ritorno dall’esplorazione della superficie lunare perché le tute spaziali erano ricoperte di polvere lunare che non era ancora stata studiata e, quindi, risultava potenzialmente pericolosa per la vita umana. Gli astronauti delle missioni Apollo 11, 12, 14 trascorsero i loro primi 21 giorni nella Crew Reception Area del Lunar Receiving Laboratory, che aveva un complesso impianto per il filtraggio dell’aria che impediva l’ingresso di sostanze contaminanti dall’esterno e la fuoriuscita o la circolazione di potenziali microbi lunari. Nel caso di un guasto, vi era un impianto di filtraggio supplementare. Quando poi la NASA studiò i campioni lunari e scoprì che non contenevano nessuna forma di vita, abbandonò molti dei protocolli di sicurezza adottati fino a quel momento. L’Astromaterials Research and Exploration Science Directorate della NASA, conserva oggi non solo i campioni di roccia lunari delle missioni Apollo ma anche campioni di meteoriti e particelle di comete. Tutto questo materiale è oggi custodito in “camere bianche” dove, cioè, l’aria fuoriesce continuamente dalla stanza in modo che l’interno rimane sterile. Con le missioni spaziali in corso e con le future, anche di esplorazione spaziale con equipaggio umano, quello della protezione del nostro pianeta da contaminazione è un tema estremamente importante, sul quale il Comitato per la Ricerca Spaziale – (COmmittee on SPAce Research, COSPAR) e le numerose agenzie spaziali mondiali stanno discutendo per riscrivere le linee guida che, attualmente, fanno riferimento a circa 50 anni fa, con il Trattato sullo Spazio Esterno (Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies)”.
Può illustraci come potremo cautelarci? “C’è bisogno di una maggiore cautela. Per i futuri laboratori si stanno studiando le tecnologie dei migliori laboratori di biosicurezza del mondo, come quello del National Emerging Infectious Diseases Laboratories (NEIDL) di Boston, che rappresenta un insieme di laboratori per le malattie infettive dove vengono immaginati gli scenari peggiori, come la fuoriuscita di un agente patogeno. Tutti i membri dello staff sanno come comportarsi in caso di emergenza, conoscono a memoria i protocolli di mantenimento della sicurezza tanto che è considerato uno dei laboratori più sicuri al mondo. Tecnici e progettisti della NASA studiano i processi che mantengono il laboratorio sterile e sicuro e lo prendono come esempio per costruire nuovi laboratori. Dagli anni Sessanta ad oggi la tecnologia e i protocolli di biosicurezza hanno fatto passi da gigante. Nei laboratori con un livello di biosicurezza “uno” si seguono le pratiche di pulizia standard, come la decontaminazione di tutta l’attrezzatura quotidiana, il lavaggio delle mani, la pulizia generale di tutte le stanze; sistemi di ventilazione specifici mantengono l’aria all’interno del laboratorio. Nei laboratori con un livello di biosicurezza “due” vi sono pratiche di decontaminazione più rigorose ma non possiamo definirle estreme. Nei laboratori con un livello di biosicurezza “tre” gli operatori devono indossare delle tute di protezione Tyvek complete e usare il respiratore. Tutto viene sterilizzato e decontaminato, proprio quello che si fa attualmente in un laboratorio per lo studio del virus SARS-Cov-2. Infine abbiamo il livello “quattro”, che riguarda pestilenze più letali come il virus Ebola. I ricercatori indossano tute completamente scafandrate; le tute, i guanti, le visiere protettive e i respiratori sono formati da vari strati protettivi e isolanti.“.
I futuri laboratori per l’analisi dei campioni marziani che livello di biosicurezza avranno? “Avranno un livello “quattro”. Ci vorranno anni di studi perché diventino operativi e potrebbe essere necessario fare altre variazioni. Oggi in Texas si sta pensando di costruire un laboratorio di questo tipo, il Mars Quarantine Facility, che ospiterà non solo polvere e rocce marziane ma anche gli astronauti al rientro dalla missione su Marte. ESA e NASA stanno collaborando per una struttura simile a Vienna, di proprietà dell’ESA”.
Cosa succederebbe se portassimo sulla Terra batteri extraterrestri? “Negli ultimi anni, gli scienziati hanno scoperto microrganismi resistenti che riescono a sopravvivere in luoghi sempre più inospitali. I minuscoli tardigradi possono sopravvivere persino nel vuoto dello spazio. Noti come “orsi d’acqua”, i tardigradi sono piccole creature che vivono in acqua e sono diventate famose per la loro resilienza. Questi invertebrati a 8 zampe possono infatti sopravvivere fino a 30 anni senza cibo o acqua e possono resistere a temperature estreme, all’esposizione alle radiazioni e anche al vuoto dello spazio. I tardigradi sono quasi indistruttibili, se facciamo riferimento alla Terra, ma è possibile che ci siano altri esempi di specie resilienti altrove nell’universo. Indistruttibili, ma non del tutto: soffrono le alte temperature”.
Come si distingue la contaminazione interplanetaria? “Si distingue in due tipi: contaminazione interplanetaria di ritorno, legata all’introduzione di eventuali organismi extraterrestri sulla Terra e in contaminazione interplanetaria diretta, prodotta dal trasferimento di forme di vita terrestri su un altro corpo celeste come Luna, asteroidi e Marte (al momento). La contaminazione interplanetaria diretta non è poi così difficile o impossibile, tenendo conto che la nostra pelle è ricchissima di germi che, nella maggior parte dei casi, non causano alcun danno alla nostra salute; ovunque troviamo batteri, organismi unicellulari, che si possono posare su tutte le superfici”.
È possibile che, visto il loro elevato potenziale di adattabilità, abbiamo la possibilità di sopravvivere a lunghi viaggi nello spazio e adattarsi a un ambiente extraterrestre? “Questo al momento non lo possiamo escludere. Infatti, alcuni esperimenti condotti da un team del Radboud University Medical Center dei Paesi Bassi, e pubblicati su Astrobiology, ha dimostrato che alcune specie batteriche in vitro e in vivo, quali Serratia marcescens, Burkholderia cepacia, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa possono sopravvivere quando sottoposte ad un regime alimentare “alieno” e si adattano molto bene a queste nuove condizioni “aliene”. I batteri in vitro sono stati alimentati in opportuni terreni di coltura con azoto inorganico (ione ammonio), fosforo (fosfato), zolfo (solfato), ferra, acqua e con zuccheri isolati da meteoriti carbonacee. Sono sopravvissuti moltiplicati. Gli esperimenti in vivo, invece, compiuti su dei topolini da laboratorio, hanno mostrato come i batteri, soprattutto Klebsiella pneumoniae, sono in grado di nutrirsi di zuccheri alieni e riescono ad adattarsi modificando la loro parete cellulare. Il sistema immunitario dei topolini infettati reagiva scatenando una risposta immunitaria più forte. Il sistema immunitario di un astronauta, dunque, può essere sottoposto a dei rischi durante viaggi spaziali a bordo della ISS o su altri pianeti, diventando più sensibile alle infezioni.
I voli spaziali a lungo termine per Marte potrebbero influenzare negativamente alcune cellule del sistema immunitario degli astronauti? Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Applied Physiology nel 2019 la permanenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale attualmente è una permanenza di “lunga durata” che può arrivare fino a 6 mesi, anche se le missioni spaziali russe a bordo della Stazione Spaziale MIR duravano un anno, il doppio di quelle attuali. La NASA e altre agenzie spaziali in questi ultimi anni si stanno focalizzando sul sistema immunitario degli astronauti per capire se questo possa essere compromesso o meno durante le missioni spaziali di “lunghissima durata” e comprendere quali rischi clinici possono insorgere agli astronauti esposti non solo alla microgravità, ma anche a radiazioni pericolose e stress di varia natura, compreso quello da isolamento”.
Questi rischi sarebbero tali da compromettere l’intera missione? “Non c’è dubbio che, tra questi rischi, il cancro rappresenti uno dei più grossi, a causa dell’esposizione alle radiazioni estremamente pericolose molto prolungate nel tempo. La Stazione Spaziale rappresenta un ambiente molto sterile: è poco probabile che un astronauta si prenda l’influenza o una qualche comune infezione, ma sicuramente le infezioni che rappresentano un problema sono quelle causate da virus che si trovano già nel nostro organismo. Si tratta principalmente di virus che causano per esempio l’herpes zoster, la mononucleosi o l’herpes labiale. Tali virus rimangono nel corpo umano per tutta la vita e si attivano in condizioni di stress o a seguito di caduta di difese immunitarie. Sono stati compiuti degli esami su alcuni campioni di sangue di otto membri dell’equipaggio della ISS, con individui sani che sono rimasti a Terra. Sono stati prelevati campioni di sangue prima del lancio, in diversi momenti della loro permanenza a bordo e alla fine della missione, una volta rientrati a casa. I risultati hanno mostrato come il sistema immunitario abbassi le sue difese quando l’astronauta si trova a bordo della ISS, rispetto ai livelli prima del volo e, superati i tre mesi di volo, la riduzione è ancora maggiore. L’effetto sembra più pronunciato negli astronauti che vanno nello spazio per la prima volta rispetto ai veterani. Le differenze potrebbero essere attribuite all’età o allo stress, facendo l’ipotesi che gli astronauti alla loro prima esperienza di volo (in genere anche più giovani), sperimenterebbero un maggiore stress rispetto ai colleghi veterani. Resta da vedere se il calo registrato nel sistema immunitario renda gli astronauti più suscettibili al cancro e alla riattivazione virale e studi ulteriori potranno sicuramente aiutare a chiarire questo punto. Ma, naturalmente, i medici e gli scienziati sono interessati a capire come mitigare questi effetti e a come evitare che il sistema immunitario cali durante i viaggi nello spazio”.
Questo tipo di studi potrà portare benefici anche alla medicina sulla Terra e alla nostra salute.
Fabio Gigante