La risposta di un archeologo al manifesto La storia cambi passo di Carlo Ruta

 

(di Clemente Marconi*)  In una fase della vita sociale e culturale del nostro paese nella quale la storia viene messa esplicitamente in discussione come materia di studio e implicitamente in dubbio come disciplina e insegnamento, il manifesto di Carlo Ruta non può che essere bene accetto, come una ulteriore voce a favore a un anno di distanza dall’iniziativa promossa da Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri. Se per i tre promotori di quell’iniziativa era al centro l’idea della storia come un bene comune, e della sua conoscenza come un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini, questo nuovo manifesto invita invece la disciplina a ripensarsi e innovarsi, traendo nuova linfa da più stretti rapporti con la scienza e la tecnologia e prendendo esempio al riguardo dall’archeologia.

Indubbiamente, l’archeologia ha un ruolo importante del manifesto di Carlo Ruta, e la lettura del documento non può che interessare chi, come me, pratica tale disciplina.

Nel suo manifesto, Carlo Ruta introduce l’archeologia in Scenari che mutano, e la presenta come una disciplina di frontiera, contigua alla storia, ma a differenza di quest’ultima rivoluzionata negli ultimi anni dai progressi della scienza e della tecnologia.

L’interesse di Carlo Ruta, al riguardo, si focalizza sulla New Archaeology, altrimenti nota come archeologia «processuale», sviluppatasi negli anni ‘60 del secolo scorso a partire dagli Stati Uniti. Oggi, al livello di riflessione teorica all’interno della disciplina, ci troviamo ben oltre l’archeologia «processuale» e la successiva archeologia «post-processuale», due termini considerati ormai desueti da diversi archeologi. Ma a voler tornare al pensiero di Lewis Binford, il principale proponente della New Archaeology, c’era di più di una semplice contiguità dell’archeologia con la scienza e la tecnologia. Binford infatti vedeva nel modo di procedere della scienza, della fisica in particolare, un modello operativo da imitare per la ricerca archeologica, e auspicava per quest’ultima un approccio rigorosamente positivistico che eliminando considerazioni soggettive potesse porre le basi per una interpretazione oggettiva e scientifica dei dati archeologici. Solo così, secondo Binford, gli archeologi sarebbero stati in grado di produrre generalizzazioni oggettive paragonabili a quelle delle altre scienze sociali (come riguardo ai processi di adattamento alle variazioni dell’ecosistema delle diverse culture umane succedutesi nel tempo): prive di pregiudizi etici, e superiori alla stessa comprensione storica, che Binford intendeva come preoccupazione non-scientifica per la ricostruzione nel dettaglio di eventi del passato. Sono questi, certamente, alcuni dei punti più dolenti della New Archaeology, come la dicotomia tra scienza e storia e l’enfasi su un approccio positivistico capace di produrre risultati oggettivi. Una linea di pensiero, quest’ultima, presto rigettata dall’archeologia «post-processuale» che ha avuto ampio modo, in tempi di accresciuto relativismo, di evidenziare come nell’interpretazione archeologica abbiano sempre giocato ulteriori fattori (tra i quali ragioni politiche e sociali) oltre che semplici considerazioni scientifiche oggettive.

Messa da parte questa precisazione sulla New Archaeology, resta comunque il fatto, ben delineato nel manifesto di Carlo Ruta, che l’archeologia ha uno stretto rapporto con la scienza e la tecnologia, i cui progressi hanno contribuito e continuano a contribuire in maniera determinante ad accrescere le conoscenze relative ai nostri rinvenimenti e agli oggetti della nostra ricerca. Si potrebbe aggiungere che l’archeologia ha preso il posto dell’approccio antiquario nella prima metà dell’Ottocento grazie alla sua aspirazione ad uno studio dei resti del passato di carattere sistematico e scientifico, che ha trovato nuovo alimento e sviluppo con la generazione dei grandi pionieri della fine dell’Ottocento. È però specialmente nel corso del Novecento che grazie a una serie di grandi figure e grandi progetti, l’archeologia ha preso la forma di una ampia e complessa impresa multidisciplinare, la cui ricerca e i cui dati attingono all’esperienza di un numero sempre più ampio di campi, incluse la scienza e la tecnologia. Carlo Ruta sofferma la sua attenzione su quest’ultima, ma può essere utile ricordare il contributo sempre più fondamentale di discipline come la zoologia, la botanica, la chimica e, più di recente, la genetica. In effetti, il livello di intreccio tra archeologia, scienza e tecnologia si può cogliere nella definizione sub-disciplinare, ora invalsa in ambito anglofono, di science-based archaeology. O, al rovescio, nel ruolo crescente giocato dall’archeologia nel dibattito scientifico contemporaneo, compresi problemi complessi come il cambiamento climatico e il riscaldamento globale. Quel che più conta qui, comunque, è che la scienza e la tecnologia ci offrono oggi, con i loro ultimi progressi, una quantità di informazioni relative a un numero cospicuo di classi di materiali, inclusi reperti organici e artefatti, semplicemente impensabili una-due generazioni fa: tanto che a livello di riflessione generale, gli sviluppi nella scienza e nella tecnologia sono considerati oggi i fattori che più influenzano la ricerca archeologica, venendo spesso anteposti agli stessi fattori umani, inclusi quelli sociali, economici, e formativi, compreso il grande problema della differenza tra un curriculum umanistico e uno scientifico per chi intende praticare la disciplina.

Questo ci riporta indietro alle prime considerazioni di Carlo Ruta sull’archeologia come disciplina di frontiera. Indubbiamente l’archeologia ha uno spiccato carattere multi- (e auspicabilmente) interdisciplinare, e in un momento nel quale tale approccio viene considerato come una prospettiva essenziale per la sopravvivenza stessa delle discipline umanistiche, ha un ruolo importante di esempio. Ma per esperienza, è bene non far finta di ignorare le difficoltà che si celano dietro l’interdisciplinarietà, derivanti dalle diversità di formazione, linguaggio e approccio insite in campi diversi. Di fronte a tali difficoltà, e al rischio che le varie discipline coinvolte in uno stesso progetto agiscano fini a se stesse, deve prevalere il senso ultimo dell’archeologia come antropologia culturale e come storia basata sulla cultura materiale, alla cui interpretazione ultima ricondurre i diversi approcci coinvolti.

L’archeologia ritorna nel manifesto di Carlo Ruta in Superando il confine dove, invitando la storia a cimentarsi con l’incerto, le chiede di «sporcarsi le mani» imparando da noi archeologi a cavare la terra dal suolo, ad andare oltre il conosciuto fino al punto di scoprire quello che non si conosce ancora e che è tuttavia ipotizzabile e immaginabile alla luce del noto.

Per celia potrei osservare, come archeologo, che la maggior soddisfazione per chi ama sporcarsi le mani nella mia professione è riscoprire qualcosa che davvero non si conosce ancora e che non è nemmeno ipotizzabile alla luce del noto: come una fase di vita di un insediamento mai documentata prima. E potrei anche osservare come proprio il contributo della scienza e della tecnologia stiano portando gli archeologi a cavare sempre meno terra dal suolo, con trincee sempre più mirate e ridotte per estensione, alla luce di un necessario riequilibrio tra scavo e analisi scientifica dei materiali, dato che la seconda, ormai, può produrre assai più informazione del primo.

Ma per tornare allo scavo come scoperta di quello che non si conosce, e che è tuttavia ipotizzabile e immaginabile alla luce del noto, non posso non notare, dalla prospettiva degli autori più seri dell’archeologia «post-processuale» come Ian Hodder, quanto sia pieno di insidie questo cimentarsi con l’incerto. Il riferimento va qui al circolo ermeneutico, che fonda ogni atto interpretativo, compresa l’archeologia. In effetti logiche circolari sono assai presenti nell’interpretazione in ambito archeologico: dove il rinvenimento non è sempre una parte che contribuisce a comporre il tutto, ma ne è predeterminato. Questo si applica anche a dati scientifici oggettivi, che non sono affatto garanzia dell’oggettività del processo interpretativo nel suo insieme e delle sue conclusioni, tentazioni nelle quali diversi colleghi archeologi, anche a causa della loro prolungata frequentazione della scienza, sono proni a cadere. A livello operativo e di metodo, nel suo rapporto con la scienza e la tecnologia, l’origine dell’archeologia come disciplina umanistica non deve andare perduta.

 

* Clemente Marconi è archeologo e storico dell’arte. Dopo aver studiato archeologia greca e romana presso l’Università di Roma La Sapienza e storia delle fenomenologie artistiche presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ha perseguito un distinto approccio ermeneutico, sostenendo una stretta interazione tra lo studio dell’arte antica e discipline come la semiotica, l’antropologia e la stessa ermeneutica. È docente ordinario alla New York University e all’Università degli Studi di Milano. È membro corrispondente del Deutsches Archaeologisches Institut e del comitato direttivo della American School of Classical Studies di Atene. Ha svolto incarichi di ricerca per la Boston University, la Columbia University, la Stanford University, la University of North Carolina a Chapel Hill, la University of California-Irvine, la University of California-Los Angeles, la University of South Florida e la Yale University. Collabora con l’American Journal of Archaeologyed. Ha firmato centinaia di saggi scientifici con la Oxford University Press, l’Austrian Science Fund, il National Humanities Center, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, l’Università di Roma La Sapienza, il Social Sciences and Humanities Research Council of Canada e l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Exit mobile version