Ustica, il nome di questa piccola isola del Tirreno distante dal capoluogo siciliano soltanto 36 miglia colpevole soltanto di essere il più vicino al luogo della tragedia, evoca uno dei momenti più sconcertanti della storia italiana. A pochi giorni dal 40° anniversario della strage del DC 9 Itavia che si consumò nel basso Tirreno la sera del 27 giugno 80 vengono alla luce frammenti di verità, ora acquisite dalle autorità competenti, che ci restituisce le ultime parole del copilota Enzo Fontana, qualche secondo prima del disastro.
Il volo IH 870 con a bordo 77 passeggeri e 4 membri d’equipaggio era previsto in partenza dall’aeroporto Marconi di Bologna per le ore 18,15 ma decollò dopo circa due ore per il ritardo con il quale era arrivato all’aeroporto bolognese il velivolo, proveniente da Palermo Punta Raisi e destinato a effettuare anche il viaggio di ritorno. Molti passeggeri erano siciliani residenti al Nord Italia che partono per l’isola per trascorrere le vacanze estive.
Terminate le operazioni di imbarco, alle ore 20.00 il comandante Domenico Edmondo Gatti, 44 anni, laurea in ingegneria con 7430 ore di volo ed il secondo pilota, Enzo Fontana, 32 anni, in Itavia da tre, diploma di perito tecnico industriale, 2873 ore di volo, entrambi esperti piloti, ricevono l’autorizzazione al decollo (take-off clearance). Il DC 9 marche I-TIGI dopo aver completato la salita si stabilizza in quota di crociera e contatta il Centro di Controllo di Roma che lo autorizza per i radio fari (trasmettitore radio omnidirezionale che trasmette continuamente un segnale su una specifica frequenza) per Palermo via Bolsena-Puma-Latina-Ponza sull’Aerovia Ambra13.
Alle ore 20.59 locali, e cioè alle 18.59Z (zulu, orario ufficiale NATO in Europa) interrompe bruscamente i contatti radio e dopo qualche minuto di volo si inabissa nel mare tra Ponza ed Ustica senza aver lanciato alcun SOS. Le due scatole nere ritrovate dalla società francese Ifremer nel giugno 1987, l’FDR (Flight Data Recorder) che registra i parametri di volo velocità, quota, prua, posizione dell’aereo, accelerazioni, posizione dei comandi, posizione delle superfici mobili, parametri motore avevano registrato dati assolutamente regolari.
L’altra scatola nera, la CVR (Cockpit Voice Recorder) aveva registrato il tranquillo dialogo tra i due piloti e risultò che uno dei due piloti pronunziò una parola, poco prima del disastro ma nel nastro risulta soltanto un “gua“. Fu immaginato che poteva trattarsi dell’inizio della parola “guarda” e ciò dimostrava che il pilota aveva visto qualcosa di anomalo come la scia di un missile. Ma la tesi fu rifiutata: fu sostenuto che non si poteva dare credito a quel frammento di parola perché non era chiaro se la prima consonante fosse una “g” o una “q“.
I risultati ottenuti dalla ditta americana furono ritenuti conclusivi dal giudice Bucarelli e il nastro non fu soggetto, in Italia, ad ulteriore perizia fonica. Proprio qualche giorno fa i tecnici di Raiews24 sono riusciti a ripulire l’audio inciso sul nastro contenuto nel Cockpit Voice Recorder del DC9 Itavia e nei prossimi giorni verrà valutato dagli inquirenti. Dalla pulizia dell’audio è stato rilevato che le ultime parole annunciate dal co-pilota Fontana fossero “Guarda cos’è”, a conferma che i due piloti in cabina videro qualcosa, un missile o un aereo da guerra.
Quella parola, sarebbe legata allo scenario di guerra materializzatosi attorno al DC 9 che, così come ipotizzato dal giudice istruttore Priore nella sua sentenza-ordinanza del 1999 fu abbattuto da un missile che lo colpì per errore e il cui obiettivo reale era l’aereo del leader libico Muhammad Gheddafi, in volo in quegli stessi istanti.
Le due parole, “guarda cos’è” non convincono il Gen. Leonardo Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, secondo il quale è stata una bomba collocata nella toilette posteriore del velivolo. “Sarebbe chiara, – secondo il Gen. Tricarico, – la dinamica, dimostrata ed argomentata in 272 udienze. Una sentenza penale confermata in Cassazione, in sede civile quella che poi da luogo a cospicui indennizzi è emersa un’altra verità anzi una non verità – chiarisce Tricarico – perché argomentata, basata e sostenuta da argomenti falsi per cui se false sono le motivazioni, falso è anche il risultato scritto in Sentenza”.
In contrapposizione a quanto dichiarato da Tricarico alcuni fatti sono chiari. Diversi furono gli “intrusi” che quella sera si trovano in quello spazio aereo. Secondo alcuni documenti forniti dalla NATO si trovavano 21 aerei militari che facevano parte integrante con ogni probabilità dell’Operazione Proud Phantom.
Dal 14 giugno dell’80 e per i 4 mesi successivi l’America trasportò a Cairo West, dove venne allestita una base aerea, il 5° Combat Communications Group, da Rhein-Main in Germania, giunse il 435° Tactical Airlift Wing’s, Airlift Control Element (ALCE). Furono trasportati armamenti, uomini, aerei, merci e materiali, per supportare il neo paese alleato egiziano che da poco aveva lasciato il blocco comunista, collocandosi al fianco dell’occidente.
Furono ospitati un gruppo di aerei Phantom F-4 (da qui il nome dell’operazione). Gli F-4, giunsero dalla Georgia dopo 10 rifornimenti in volo con aerocisterne e come aeroporti alternati nel caso in cui si fosse reso necessario rifornire a terra, le basi aeree europee per l’operazione, erano: Laies (Azzorre), Torrejon (Spagna), Rota (Spagna), Sigonella e Trapani Birgi in Italia e Seuda Bay (Creta).
A 40 anni dall’anniversario, l’ Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica attende ancora la verità. “Nonostante i numerosi indagati, – secondo la Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione – nessuno ha pagato per la strage che rimane uno degli episodi più controversi della nostra storia italiana. Una strage ancora senza colpevoli”. Un paese civile alla verità non deve rinunciare.
Foto di Fabio Gigante